mario perrotta

Vita dentro lo studio di un artista. Mario Perrotta, collezione 2014

mario perrottaLa storia dell’artista che lavora isolato nel suo studio, o nella sua bottega, è una storia assurda per quanto banale. Lo studio dell’artista brulica di vita e di gente, anche se c’è una singola presenza. La bottega di un’artista è un posto fisico, gettato nelle vicende della società, di un paese: una barca sbattuta tra mille idee e fatti che ne condizionano il contenuto. L’artista è il suo unico timoniere mosso da mille avvenimenti che si condensano oltre l’esperienza personale; condensano nella testa, nel cervello, nel cuore, nello stomaco. Condensano nella pittura, dopo che il colore si distende sulla tela, dopo che un bozzetto è stato a maturare in disparte, gettato su di un tavolo e sepolto dai giornali. L’artista non è mai solo. l’artista è perseguitato da emicrania per il vocio continuo cui deve dare ascolto.

La mattina si arriva nello studio e, una volta aperto, è il dramma della tela bianca: qualcosa rivendica la propria rivolta, una rivolta da esternare, che necessita una forma, un’esigenza espressiva. Il lavoro dell’artista è preso d’assalto dalle grida assenti nel luogo, che riecheggiano, però, nella società. il lavoro dell’artista è un’eco della società che ambisce ad altro.

mario perrottaIl lavoro di Mario Perrotta sembra calcare questa linea, ripercorrendo ed elaborando stili già presenti nell’arte contemporanea, utilizzati per ingabbiare una figura e liberarla dall’immagine comune.

La produzione 2014 dell’artista paolano si apre con un grido di stanchezza, frutto della visione costante di una donna incatenata nella sudditanza, contrapposta all’uomo per paragone. La donna è indipendente, la donna necessita libertà. La donna è la vita. Il calpestio violento della sua figura reale, quanto fittizia, è l’annullamento della vita. Così la rappresentazione di Mario Perrotta di questo stato di cose è un’atavica schiavitù, anche delle figure femminili che hanno governato: una Cleopatra incatenata dove l’elemento che dona vita al quadro è, appunto, una reale catena, andando oltre la dimensione piatta e proiettando l’incatenamento, non solo raffigurato, bensì reale. Ma i lavori sul tema continuano, concentrandosi maggiormente sullo sguardo della donna e sulla metafora della bellezza: lo sguardo della donna è uno sguardo inquisitore quanto benevolo e severo, che insegue chi osserva l’opera. Ma lo sguardo della donna si stende sulle case, sulle forme armoniche, sulla bellezza del paesaggio che più non ci appartiene e più non riusciamo a riconoscere.

mario perrottaIl lavoro di Mario Perrotta è, inoltre, un’eterna diatriba con la realtà del sud, quello che prima lo ha mandato via, migrante al nord, ma che poi lo ha richiamato, perché il sud, in fondo, piace, soprattutto se ci nasci: è una nenia che attrae con nostalgia per una vita mai vissuta e solo immaginata; una nostalgia per l’effimero e l’irreale. La riflessione converge sull’esistenza dei nostri luoghi, paesi: cosa ne facciamo di una decantata bellezza se attuano scellerati che relegano bellezza in un’immagine retorica svilita da una lunga ed inesorabile attesa? Il tema dell’attesa caratterizza uno dei lavori ultimi più belli, per stile e significato, di Mario. “La paziente attesa” intrappola, in una reinterpretazione cubista, la figura di un asino legato ad un albero. In realtà ad mario perrottaessere legato non è la figura principale e che subito attrae lo sguardo dell’osservatore, ossia quella dell’asino, bensì la sua ombra proiettata sulla terra: l’instancabile animale da lavoro, sfruttato, ma nobile nel suo valore morale, proietta in terra la sagoma della Calabria, terra natia dell’artista. Figure geometriche di memoria mondriana aleggiano in cielo, tra i rami dell’albero che mantiene legato l’asino calabrese, il quale volge il capo verso la dimensione esterna del quadro, restandone intrappolato, poiché la sua ombra legata in un’attesa paziente, ma ingannatrice: gocce di mare fanno piangere la piccola penisola, mentre nessun padrone verrà a slegare l’instancabile lavoratore, abbrutitosi nella miseria e nell’arroganza di un’elevazione del proprio status, non accompagnata dall’umiltà morale e dal valore atavico dell’accoglienza. Nel frattempo l’attesa è sotto l’ombra di un albero, spoglio, che più neanche ombra potrà donare.

mario perrottaAltro lavoro dedicato alla condizione dei calabresi è “Catene ed evasione”. L’osservatore viene ingannato, a primo impatto, dalla libertà delle geometrie utilizzate da Mario Perrotta; libertà fittizia, tuttavia, che nega l’espressione della vita collettiva e fende il paesaggio in secondo piano ritratto nell’opera, relegando in ambiti restrittivi la vita delle persone. In questa opera Mario Perrotta fonde i suoi stili differenti: la sua abilità paesaggistica, con cui lui si identifica maggiormente e che maggiormente influenza il suo lavoro; e la sua pittura geometrica che osserva le figure reali con maggiori tagli di prospettiva, a metà tra il cubismo e l’avanguardismo, ma dagli intensi colori del Mediterraneo. Ma non tutto può essere intrappolato. Non tutta la vita sociale può essere svilita da forme convenzionali e da cesure che generano contrasti superflui, contrasti che non mirano ad un cambiamento dello stato di cose, ma esistenti in un “divide et impera”. Ci sono vie di fuga, momenti di mario perrottaaggregazione che possono evadere dall’incatenamento. Le forme geometriche, che tagliano il paesaggio, sono circondate da un catenaccio, serrato da un lucchetto (e che rende ridondante la morsa in cui si trova la società), ma la base del quadro lascia spazio a ritagli per la condivisione di un sistema collettivo: il passeggio di una comunità che vuole rivivere i propri posti e, chissà, una lontana identità paesana, e il gioco dei bambini in un prato verde, che riporta il calcio alla dimensione del divertimento e non del buisiness, complice invece delle linee che frammentano e realizzano la chiusura della collettività. Come resta libero, poi, anche il volo degli uccelli, il cielo, impossibile da trattenere, ma a cui è possibile negare lo sguardo di chi è intrappolato e manca di coscienza della propria condizione.

 

di Fabrizio Di Buono

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