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Addio Bertolucci, ultimo maestro del cinema italiano (di Gianmarco Cilento)

“C’è una specie di creatività informe che io chiamo “caos”, e solo quando realizzi qualcosa come un film, un pezzo musicale, un quadro, è il caos che prende forma!”. Questa dichiarazione di fede e poetica Bertolucci ebbe modo di rilasciarmela nel corso della Conferenza Stampa del Bari Film Festival il 28 aprile 2018 in occasione della proiezione di “Ultimo tango a Parigi” (1972) in versione restaurata. Con ironia aveva anche sottolineato che le cineteche avrebbero dovuto “cominciare anche a restaurare i registi”.

Bernardo Bertolucci durante le riprese di un film

In seguito a ciò il destino non gli ha riservato molto tempo. Se n’è andato stamattina 26 novembre a Roma, all’età di 77 anni. Era afflitto da circa undici anni dalla sclerosi multipla che lo aveva costretto da anni alla sedia a rotelle. Non voleva arrendersi. Aveva comunque trovato la forza di girare ancora un film nel 2012, “Io e te” dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti, e nel 2013 un cortometraggio, “Scarpette rosse”. Aveva inoltre partecipato con molta cura al restauro di alcuni suoi film, tutti ridistribuiti nelle sale italiane questa primavera, era riapparso con grande disinvoltura al cinema Nuovo Sacher di Roma e al già citato Bifest di Bari dove, in seguito ad una Masterclass sulla sua carriera, aveva avuto modo di ritirare il Premio Fellini datogli in mano da Giuseppe Tornatore.

La carriera di Bertolucci è una di quelle parabole artistiche ideali e rituali. Piene di radici e allo stesso tempo profondamente rivoluzionarie e innovative. Nasce a Parma il 16 marzo 1941. Figlio d’arte: il padre è il poeta e critico cinematografico Attilio. Da ragazzino si trasferisce a Roma. Inizia a girare alcuni cortometraggi (il primo è del 1956, “La teleferica”). Conosce Pier Paolo Pasolini che abita nello stesso palazzo e con cui gioca insieme a calcetto. Diventano amici e lo scrittore friulano lo assume nel ruolo di aiuto regista per il suo primo film “Accattone” (1961). Le idee e i suggerimenti del giovane ragazzo parmense convincono Pasolini. Si rende conto di aver ereditato molto della vena creativa ed espressiva del padre. Decide quindi di mettersi in gioco anche lui con il cinema, all’epoca nella nostra penisola nel suo periodo più prolifico e bello. Il suo primo lungometraggio è quindi del 1962, “La commare secca”, una sorta di giallo di periferia molto pasoliniano ovviamente. Due anni dopo arriva il film che lo consacra alla critica e al giovane pubblico europeo, “Prima della rivoluzione”. Limpido e molto ricco nella sua cifra filosofica, denota ovviamente le sue concezioni politiche, la sua visione sul mondo. Il film viene osannato anche in Francia dai Cahiers du Cinemà e da Jean-Luc Godard, con il quale stringe poi un ottimo rapporto. Nel frattempo si sposa con Adriana Asti, giovane e promettente attrice che recita in quel film consacrato oltralpe.

Bertolucci e Pasolini

Nei quattro anni a venire Bertolucci si prende un periodo di riposo. Si dedica ad un documentario sul greggio d’Iran, “La via del petrolio” trasmesso in tre puntate in RAI nel 1967 e nel frattempo cerca di fare punto sulla situazione del cinema in corso. Medita l’idea di un film di rottura, quello che lui stesso chiama un “opera aperta ma per élite”. Il risultato è “Partner” (1968), interpretato da Pierre Clementi. Si tratta di un’operazione filmica che rompe i canoni tradizionali del linguaggio cinematografico e che alla lunga finisce per diventare fine a sé stessa. Si rende conto di aver esagerato. Nel frattempo gira un cortometraggio con il Living Theatre inserito nel film collettivo “Amore e rabbia” (1969), ma poco dopo preferisce ritornare ad una formula più classica stilisticamente parlando. Arriva quindi nel 1970 “Il conformista” dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, con Jean-Louis Trintignant e Stefania Sandrelli. Il risultato è uno dei suoi film migliori e piace a tutti, seguito nello stesso anno da “Strategia del ragno” ispirato ad un racconto di Jorge Luis Borges. Bertolucci diventa quindi un cineasta poliedrico e discusso, una vera promessa per il cinema italiano.

Ma il film che consacra Bertolucci nell’Olimpo degli autori della Settima Arte è indubbiamente il successivo “Ultimo tango a Parigi”. Film maledetto, difficile, denso e complesso. La storia di Paul (Marlon Brando) un americano sradicato che intrattiene con Jeanne, una sconosciuta parigina (Maria Schneider) una torbida e inconsueta relazione amorosa che sfocia in tragedia. Dopo la calorosa accoglienza della première al New York Film Festival il film però subisce innumerevoli vicende giudiziarie da parte della censura italiana che prima gli nega il visto censura, poi lo ammette ma decide di sequestrarlo. Lo riabilita tre anni dopo, ma lo sequestra nuovamente mandando a rogo tutte le copie. Diventa col passare degli anni un film misterioso, nascosto, una specie di leggenda. Torna in pubblico solo nel 1987 perché “mutato il comune senso del pudore”. Aveva fatto particolare scalpore la famigerata scena di sesso anale tra Brando e la Schneider dove viene utilizzato il burro. Una scena molto discussa che aveva persino portato gravi disagi esistenziali e professionali alla giovane attrice francese, una sorta di trauma mai guarito (dal momento che la scena in questione non era nemmeno prevista nel copione). Bertolucci ha di recente ammesso “forse sono stato colpevole di tutto ciò”. Il film resta comunque grazie anche alla decadente fotografia di Vittorio Storaro e alla enigmatica colonna sonora di Gato Barbieri un’opera indimenticabile, uno dei film più importanti degli anni settanta.

Nel frattempo Bertolucci realizza un Kolossal, una sorta di Via col vento all’italiana, “Novecento” (1976) con due giovani star: Robert De Niro e Gerard Depardieu. Un’efficace ritaglio di storia d’Italia dagli inizi del 1900 al giorno della Liberazione, un’altra pellicola molto discussa per la sua spietata dialettica antifascista e un ancora una volta crudo uso della sessualità. La voglia di cinema e di espressività artistica è indubbiamente familiare: nel frattempo anche il fratello minore Giuseppe diventa regista dirigendo l’anch’egli esordiente Roberto Benigni in “Berlinguer ti voglio bene” (1977)

Bertolucci è ormai famoso in tutto il mondo: seguono altri film come “La luna” (1979) e “La tragedia di un uomo ridicolo” (1981). Ma i risultati artistici non sono quelli dei film precedenti e il regista emiliano inizia ad allontanarsi con mente e corpo dall’Italia. Non gli piace la nuova società degli anni ottanta, molto più superficiale di quella precedente, nonché l’evidente corruzione nel mondo della politica. Vuole evadere culturalmente. Si gode viaggi in giro per il mondo e in Cina concepisce “L’ultimo imperatore” (1987). Il film, una produzione di respiro internazionale, si aggiudica la bellezza di 9 Premi Oscar e Bertolucci diventa il primo (e allo stato attuale unico) cineasta italiano ad afferrare la statuetta come Miglior Regista. Forte della vittoria dell’Academy realizza altri film dal sapore anglosassone, tutti interpretati da promettenti attori statunitensi. Nel 1990 è la volta de “Il tè nel deserto”, con John Malkovich e Debra Winger. Tre anni dopo segue “Piccolo Buddha” con Kenau Reeves e nel 1996 “Io ballo da sola” con Liv Tyler. Girati in lingua inglese e molto diversi tra loro, dimostrano l’indubbio amore di Bertolucci per il linguaggio universale e globale del cinema americano. Insieme a Giuseppe Tornatore e Paolo Sorrentino rimane tra i registi italiani più “americani” ed esportabili in giro per il pianeta

Dopo il fallimento artistico e commerciale de “L’assedio” (1998), inizialmente concepito per la Televisione, Bertolucci ritorna alla ribalta professionale e commerciale con “The dreamers – I sognatori” (2003), nostalgica e romantica riflessione sul Cinema, la cinefilia e il Sessantotto sullo sfondo di un triangolo amoroso tra due ragazzi e una ragazza a Parigi nell’anno della contestazione. Il risultato divide la critica, ma il giovane e maturo pubblico del duemila apprezza abbondantemente il risultato, e con il tempo diventa insieme a “Love” (2015) di Gaspar Noel uno dei film romantici più stimati e amati della gioventù contemporanea del nostro paese. In seguito subentrano i problemi di salute per l’ormai anziano regista. Ma come già detto non abbandona la verve e l’istinto creativo. “Io e te” viene inizialmente concepito in 3D, ma a causa di alcuni problemi di natura economica viene rilasciato nel normale formato bidimensionale. L’immagine del regista sulla carrozzina alla première del film a Cannes 2012 commuove tutti, ma una sicurezza Bertolucci ormai la chiude nel pugno: il mondo del Cinema lo ama. Senza ombra di dubbio per il semplice motivo che, come sosteneva già a suo tempo il critico Giovanni Grazzini, grazie a Bertolucci siamo riusciti a mettere in dubbio (almeno nel cinema) quel giorno in cui tutti quanti abbiamo scoperto la paura e il pudore, grazie al suo spietato uso dell’erotismo decadente, perverso e privo di inibizioni. Soprattutto privo di quella dialettica della repressione sessuale di stampo borghese. E questo è stato il più grande atto d’amore del regista nei confronti del Cinema, e di conseguenza il mondo del Cinema lo ha amato molto di più di quanto il mondo della Letteratura abbia amato suo padre Attilio…

Gianmarco Cilento

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