La carnalissima trinità di Lepage

Robert Lepage torna al cinema dopo 10 anni con un’opera bella ed emozionante

Triptyque
Lise Castonguay in “Triptyque”

Anche nei festival più prestigiosi spesso succede che i film migliori vengono inseriti nelle sezioni collaterali. “Triptyque”, il nuovo film di Robert Lepage, noto per “La face cachée de la lune”, co-diretto insieme al talentuoso Pedro Pires, era nella selezione Panorama Special della Berlinale 2014, dove ha vinto la menzione speciale della giuria ecumenica. Ispirato alla pièce “Lipsynch” dello stesso Lepage, il film non ha nulla di teatrale nel senso deteriore del termine, ma è anzi puro cinema e di altissima qualità. Il numero tre del titolo non fa solo riferimento alla struttura in tre parti del film, ciascuna dedicata ad un personaggio, ma contiene chiari riferimenti al cristianesimo e sintetizza l’aspetto estetico e quello religioso, in particolare divino. Anche la posizione della cinepresa riflette i tre punti di vista: dall’alto, dal basso e ad altezza d’uomo.

Un film sulla parola e sul linguaggio (anche se nel complesso si parla poco), sulla necessità a volte sublime, a volte dolorosa della comunicazione, con un chiaro riferimento ai testi sacri: nella cultura occidentale di ispirazione cristiana tutto comincia con la parola: in principio fu il verbo. Una riflessione sui limiti del linguaggio nell’esprimere i pensieri ma allo stesso tempo sulla necessità di usare qualche forma di espressione, necessariamente frutto di compromesso, ad esempio attraverso i limiti del formato digitale: sgranatura, saturazione. Siccome il linguaggio è strumento di comunicazione inevitabilmente questo è anche un film sulle relazioni e sulle reazioni al mondo circostante, tema caro a Lepage. Non è certo una novità che la relazione con le altre persone sia soprattutto una ricerca di se stessi, ma qui si cerca piuttosto la sintesi tra aspetto scientifico, inteso come razionale, e aspetto spirituale, inteso come emotivo, che confluiscono nell’atto della creazione. Relazioni che passano anche attraverso la dissimulazione, come Michelle con la sua schizofrenia e Thomas che nasconde la sua malattia. Nel bene e nel male, sono questi imprevisti, rappresentati da malattie, a indurre Michelle, Marie e Thomas a porsi delle domande e a prendere delle decisioni. Ma non da soli: non è un caso che per Lepage l’interdipendenza dei suoi personaggi ricordi arti come il teatro e il cinema che per realizzarsi hanno bisogno di una équipe. Il cerchio si chiude nel finale con la scoperta di quanto profonde siano le tracce che lasciano dentro di noi coloro che amiamo; un tentativo riuscito di rispondere alla scottante domanda di chi siamo e da dove veniamo. Sulla base di questa impostazione Lepage e Pires scompongono e ricompongono gli elementi fondamentali del linguaggio cinematografico con i suoi numerosi riferimenti alla pittura e alla musica, alla scrittura e alla recitazione. Il piccolo miracolo di questo film, ed il suo fascino principale, è che gli autori non inventano nulla ma sembrano farlo, svelando nuove prospettive, e spesso grazie solo a piccoli dettagli.

Altro tema del film la relazione tra corpo e mente, tra materialità e astrazione. Fulcro di questa ricerca è il cervello, che passa da opera di creazione a creatore. Un oggetto meccanico, che si può “riparare” con le pillole come quelle che prende Michelle o i cui ingranaggi si possono bloccare come accade con la perdita temporanea della parola durante l’operazione di Marie. Ma soprattutto un’entità impalpabile, la cui collocazione è quanto meno dubbia. I due aspetti si unificano nella sequenza in cui Marie riesce inaspettatamente a ricostruire l’audio dei suoi vecchi film super8 (è un fatto che la memoria si fonda soprattutto sulle immagini), (ri)scoprendo i suoi legami genetici, quindi meccanici, tramite la voce, lo strumento attraverso cui si esprime come artista.

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