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Italiani “brava gente”… o no? (di Roberto Pititto)

L’attuale stagione politica è caratterizzata, tra l’altro, dai commenti a volte ironici, più spesso sprezzanti, talora dagli insulti rivolti al Ministro degli Interni e al copremier, perdonate l’ardito neologismo, Ministro del Lavoro.

Salvini e Di Maio sono rispettivamente un razzista ed un incapace, un becero rappresentante e portavoce dei più bassi istinti italioti, dell’egoismo provinciale ed ignorante contornato da una nullità, il cui primo giorno di lavoro è coinciso con il primo da Ministro e la cui unica strategia sembra quella di distruggere il lavoro.

Nei paludati salotti, nelle arene televisive, nei giornali, o almeno nella maggior parte di essi, è questa la linea predominante, tra commentatori compiacenti e giornalisti sprezzanti che in pratica ripetono, ogni giorno che la maggior parte degli Italiani, almeno il sessanta per cento secondo gli ultimi impietosi sondaggi, è costituita da idioti  abbindolati da un gruppo di venditori di fumo, anche un po’ male in arnese.

Premetto che non ho nessuna particolare simpatia per i due sodali citati, né per i movimenti/partiti che rappresentano, ma ne ho ancora di meno per chi incolpa i vincitori della propria sconfitta.

È come incolpare il pesce del fatto di non lasciarsi  prendere all’amo  o l’asticella del salto in alto che continua a cadere e ostinatamente non si  lascia superare. E allora vogliamo chiederci come mai il sessanta per cento, o forse oltre, ha preferito un capopopolo, che i tanti intellettuali definiscono un razzistello, bullo, in lieve sovrappeso associato ad una assoluta nullità, ai professionisti della politica che di generazione in generazione ci governano da innumerevoli decenni?

Andiamo con ordine e chiediamoci per prima cosa se gli Italiani sono razzisti. Io non andrei così di fretta a negarlo con decisione, e neanche sarei certo nell’affermarlo.

Ma è anche vero che, al di la di una intolleranza di fondo di chi appartiene all’elite del mondo, più che altro pensa di appartenere ad essa, verso chi certamente è invece tra gli ultimi, abbiamo constatato, nel corso degli ultimi anni, quanto questi sentimenti si siano acuiti in modo esponenziale, senza che l’intellighenzia politico-intellettuale del Paese ne riuscisse a cogliere non dico i motivi, ma nemmeno i sintomi.

Tutti tranne Salvini, che evidentemente a tale casta non apparteneva e che ha fatto di questa intolleranza diffusa, non solo il motivo conduttore di una campagna continua di proselitismo, ma anche un mezzo di distrazione di massa per problemi assai più gravi ed urgenti.

A mio parere per comprendere questo è necessaria una riflessione più ampia sui termini di Democrazia e di Stato democratico, che non dimentichiamocelo è quel sistema che consente a chiunque, Salvini compreso, di vincere e governare.

L’aver scambiato il concetto di Democrazia, anzi la sua essenza, con l’allentamento delle regole, il rifiuto pervicace di difendere la loro scrupolosa applicazione, l’aver pensato che in uno Stato Democratico la civile convivenza potesse sopportare sempre coloro che alle regole e alle leggi si ostinano a opporsi, è un errore marchiano.

Democrazia è sinonimo di libertà e tolleranza, questo è innegabile, ma al tempo stesso ci si è sempre interrogati fin quando tali concetti possono spingersi, fin quando o fin dove uno Stato democratico possa permettersi di essere tollerante. Karl Popper sosteneva che uno Stato assolutamente tollerante è destinato ad essere governato da una minoranza di intolleranti, gli unici, alla lunga, in grado di garantire le regole di civile convivenza. In altri termini voglio dire che l’attuale ventata razzista che percorre il Paese, non nascondiamoci dietro belle parole per negarlo, è figlia di tante madri o padri se preferite.

Di spacciatori impuniti che esercitano la loro professione alla luce del sole, di ladri e rapinatori liberi il giorno dopo l’arresto, di gioiellieri inquisiti e condannati per avere osato difendersi da chi li rapinava, di stupratori a spasso per un errore procedurale, di corrotti e corruttori che continuano bellamente la loro attività dopo una condanna per tali reati, di ragazzini rom arrestati tre volte a settimana per furto e borseggio, senza che ai genitori sia addebitata nulla o tolto, come sarebbe opportuno negli interessi dei bambini, la patria potestà.

È figlia di processi in cui vittime e carnefici sono messi sullo stesso piano, di leggi demenziali a favore del recupero di delinquenti incalliti, di assassini che i parenti delle vittime sono costretti a veder passeggiare sotto casa dopo un paio di anni di galera (magari la condanna era a trent’anni).

È figlia del buonismo interessato di frequentatori di salotti paludati, che ci spiegano i valori della tolleranza e dell’accoglienza e, tra chi li ascolta, ci sono gli abitanti di quella periferia dove difendere i propri figli dall’arruolamento della criminalità organizzata è impresa titanica e dove loro non metterebbero mai piede, non fosse altro per non sporcare i costosi mocassini.

Democrazia è rispetto delle leggi, è pari opportunità e diritti, ma anche pari doveri, è tolleranza verso i deboli e gli emarginati, non verso i delinquenti, è governo della maggioranza con un puntuale e rigoroso controllo da parte dell’opposizione, non becero vociare fatto di accuse ed insulti, è anche interrogarsi sui propri errori ed assumersi le colpe per le proprie scelte e la propria sconfitta e non accusare gli elettori di marchiana stupidità.

Ma Democrazia è anche avere interpreti in grado di affermare i principi fondanti della stessa, uomini in grado di pensare non solo alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni. E quando una società stanca ed in declino non riesce più a produrne, è quello con la voce più forte, non la più autorevole, a  prevalere.  E  accade persino di indicare quali colpevoli di tale declino quei quattro disgraziati, morti di fame, mezzo affogati, che disperatamente cercano una speranza ed ai quali dovremmo magari insegnare le regole di questa splendida nostra conquista, figlia di secoli di guerre e rivoluzioni, di mille e mille morti,  che si chiama Democrazia.

Ma solo dopo averli tratti in salvo.

Ecco, secondo me, come nascono le dittature.
Esse hanno due madri.
Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia.
L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi,
precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è
pronuba e levatrice.
Così la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E prima che nel sangue, nel ridicolo .

Tratto da: Platone, La Repubblica – Cap. VIII

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