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Paola – Mani moleste sul futuro. Fuochi e frane: alluvioni all’orizzonte?

Percorrendo la vecchia “Palombara” (la strada che, prima della realizzazione della “Statale 107”, collegava Paola all’entroterra cosentino), non si può fare a meno di notare l’enorme quantità di piccoli smottamenti, frane e franette, che ne caratterizzano il tratto affacciato sul mare.

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Lungo i tanti tornanti che concedono la visione di un panorama mozzafiato, laddove lo sguardo può elevarsi verso i tratti più caratteristici di questo territorio, l’attenzione alla guida dev’essere massima, perché non è raro trovarsi sulla carreggiata una bella capitombolata di pietre e massi, roba capace di zittire persino il rombo di un camion.

Non che questo rappresenti un fenomeno “nuovo” (tant’è che le reti di protezione fissate sui crinali sono lì da decenni), tuttavia nel corso del tempo s’è assistito ad un sempre maggior incremento dei cedimenti, che si sono fatti via via più corposi anche per ciò che riguarda il materiale riversato a valle.

Come dimenticare i movimenti improvvisi e devastanti che hanno addirittura imposto la chiusura della “Silana-Crotonese”?

A cosa attribuire le cause di cotanta violenza?

Per i meno smaliziati, come sempre, la colpa è da ripartire tra governo e meteo, rispettivamente imputabili di incuria e “impazzimento”. Ma a ben guardare le cose potrebbero essere viste diversamente.

Ad esempio, mettendo in relazione incendi e frane, è impressionante constatare come la frequenza dei primi si rispecchi – aumentata di almeno tre volte – nelle seconde, come se ad ogni rogo appiccato corrispondano almeno tre smottamenti successivi, figli di una minor resistenza del terreno dovuta alla scomparsa della vegetazione che lo ricopriva.

Lavata e disciolta dalle piogge, la terra – senza più radici a tenerla frenata – si incunea lungo canali ripidissimi, che di anno in anno stanno allargandosi sui pendii che sovrastano il centro abitato. E ad ogni acquazzone è sempre maggiore la quantità di materiale che viene trascinato a valle.

Tra terra bruciata, alberi arsi e rocce sporgenti, il rischio che prima o poi si possa verificare una tragica ondata, è sempre maggiore.

Seguendo una traiettoria lunga chilometri, la fascia di montagna rovinata dall’apocalisse fiammeggiante che qualcuno aizza con mano molesta, si estende sull’intera città di Paola, sul Santuario di San Francesco, sul Cimitero e sulle strade più suggestive delle diverse contrade periferiche, da nord a sud.

Ora, tenendo presente ciò che solo ieri è successo che in Liguria e Piemonte, dove in meno di 24 ore è caduta una quantità di pioggia generalmente scaricata al suolo in 6 mesi, ipotizzando uno scenario simile a queste latitudini, siamo proprio sicuri che le eventuali responsabilità saranno da ascrivere soltanto al tempo ed al governo?

I fuochi che stanno aggredendo le montagne paolane, stanno aggredendo l’intera città, la sua popolazione, la sua flora e la sua fauna (qualcuno s’è mai chiesto quanti animali muoiono durante un incendio, quanti cuccioli vengono sopresi nelle loro tane, quanti uccelli bruciano insieme ai loro nidi, quanti fiori scompaiono dalla faccia della Terra?). I roghi, quasi sempre figli di una mano molesta (per non dire “nera”, facendo il verso a certe organizzazioni criminali italoamericane del secolo scorso), deturpano il paesaggio, sterilizzano l’identità, spaventano. È ora di dire basta e sollecitare, magari con qualche manifestazione pacifica, un maggiore impegno da parte di coloro che sono addetti al controllo e alla salvaguardia.

Di seguito si propone l’articolo del meteorologo Luca Mercalli, pubblicato in data odierna (05.10.2020) sul “Fatto Quotidiano”

Le alluvioni sono un fenomeno complesso, non si prestano a semplificazioni e battute da bar. Per comprenderle servono più discipline: meteorologi, climatologi, geomorfologi, idrologi, ingegneri idraulici, urbanisti.

Proviamo a scomporre i diversi elementi del disastro di Limone Piemonte e della Valle Roya francese.

Il primo ingrediente sono 600 millimetri di pioggia in meno di ventiquattr’ore. Cioè seicento litri al metro quadro che da quote oltre i duemila metri scendono a valle con potenza distruttiva. Si tratta di una precipitazione eccezionale, che non ha precedenti nelle serie di misura della zona, iniziate nel 1913. È metà della pioggia media di un anno caduta in un giorno su un territorio non abituato a simili quantità. Quindi la piena è assicurata. Secondo ingrediente i cambiamenti climatici. Di piogge alluvionali ce ne sono sempre state nei nostri territori ma ora il riscaldamento globale scalda pure il Mediterraneo e produce più vapore disponibile per la formazione delle piogge, quindi le sta amplificando, rendendole più intense e più distruttive.

Di fronte a questi valori inediti non c’è manutenzione del territorio che tenga: dimenticatevi di trattenere queste quantità d’acqua solo pulendo i fossi o rattoppando i muretti a secco: viene giù tutto e basta. Il problema ovviamente si accresce via via che scendendo a valle la piena incontra le infrastrutture e gli edifici umani: il ponte troppo basso come quello di Garessio che ogni volta che il Tanaro va in piena rigurgita le acque in paese va abbattuto e rifatto più alto proprio in previsione dei maggiori apporti di pioggia che avremo in futuro. I ponti romanici travolti sulla Roya che resistevano da mille anni sono invece la prova dell’intensità inedita dell’evento e andranno ricostruiti tenendone conto. Ovviamente le case lungo il fiume sono state spesso frutto di scelte urbanistiche scorrette dell’ultimo mezzo secolo e non dovranno essere ricostruite negli stessi luoghi: bisognerà lasciare ai corsi d’acqua delle fasce di esondazione sempre più ampie in previsione dell’aumento degli eventi estremi.

Vero che sono mali tipici del nostro territorio nazionale, in preda alla cementificazione senza limiti, ma a cui non si possono addebitare tutte le colpe: anche in Francia le case inghiottite a St-Martin-Vésubie, inclusa la caserma della Gendarmerie, occupavano il fondovalle che è stato interamente invaso dal fiume, senza scampo per nessuno.

Questo per dire che i disastri meteorologici quando sono eccezionali accadono anche negli altri paesi: il Ticino è uscito dagli argini pure nella civilissima e ordinatissima Svizzera, dove i prati sono falciati e i tombini puliti.

Vediamo dunque la ricetta della prevenzione, che sempre predichiamo dopo ogni evento estremo e dimentichiamo appena torna il sole: più che costruire argini occorre costruire una cultura della protezione civile.

I nubifragi e le tempeste diventeranno in futuro più frequenti, tutto non si potrà proteggere, nei centri storici si cercherà di mettere in sicurezza l’esistente con qualche intervento strutturale ma il maggior risultato lo otterremo spostandoci noi dalle zone a rischio esondazione, dove non si dovrà più costruire nuovo edificato.

La manutenzione del territorio sarà importante ma non illudiamoci che basti a contenere seicento litri d’acqua al metro quadro in poche ore.

About Francesco Frangella

Giornalista. Mi occupo di Cronaca e Politica. Sono tra i fondatori del Marsili Notizie ed ho collaborato come freelance per varie testate.

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