Da Wikipedia: «Elefante nella stanza (in inglese elephant in the room) è un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L’espressione si riferisce cioè ad un problema molto noto ma di cui nessuno vuole discutere, oppure ad un particolare elemento di tale problema. L’idea di base è che un elefante dentro una stanza sarebbe impossibile da ignorare; quindi, se le persone all’interno della stanza fanno finta che questo non sia presente, la ragione è che così facendo sperano di evitare un problema più che palese. Questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabù sociali o di situazioni imbarazzanti».
Stante la compagnia della gola profonda di Sant’Agostino, un elefante sarebbe comparso nella stanza più prestigiosa dell’intero complesso incastonato nel centro storico, un pachiderma che – a differenza del silente convitato dell’espressione tanto cara agli inglesi – pur di farsi notare avrebbe iniziato ad emettere i versi tipici del mastodonte afro-indiano.
La presenza del mammifero zannuto sarebbe stata avvertita grazie agli stimoli sonori emessi dall’animale, una quantità innumerevole di barriti (il barrito è il verso proprio della bestia dalla dura pelle grigiastra) in stile comiziale, bramiti strazianti come quelli emanati nel corso di una celebre campagna elettorale di qualche anno fa, quando da una delle piazze principali del paese si levò un verso disumano, volto a criticare la scelta operata per la riconversione di un centralissimo spaccio di prodotti tipici in – appunto – “un Baaaaar(rito)”.
Impossibile da non notare, il mastodonte sarebbe stato dapprima ignorato dai presenti, ma data la sua indole selvatica e istintiva, nel momento in cui pare aver addirittura caricato – puntando la scrivania di colui che siede nella stanza in cui è incarnito il potere più rappresentativo dell’edificio – qualche indomito realista della compagnia di Sant’Agostino, si sia dovuto capacitare, intervenendo con dei cordami atti a fermare le zampe del pachiderma, che fino all’ultimo avrebbe rivolto invettive laceranti e tentativi di pestaggio al suo astante interlocutore che, seduto dietro al tavolo del comando, avrebbe dato l’impressione d’essere addirittura indolente nel vederlo.
Successivamente un dardo sedativo avrebbe riportato la calma, una condizione “apparente” però, perché nel frattempo – sempre sulla scrivania puntata dall’elefante – sarebbe “s”fiorito il cactus lasciato lì dalla bionda dama del palazzo, una pianta ornamentale usata a mo’ di fermacarte per i documenti più scottanti da pubblicare sull’albo dei lavori.
Ad essere diventato rovente sarebbe stato un atto in particolare, relativo al rifacimento del tendone circense sotto al quale, a due passi da un campo d’erbetta sintetica, acrobati sportivi e animali da competizione, in maniera continuativa erano abituati ad esibirsi per la salute pubblica e il ludibrio collettivo. Le ragioni di tanto calore, a quanto pare, sarebbero risiedute in una cova ornitologica pronta a schiudersi tra le righe di quei fogli, una nidiata dalla coda a ventaglio che tanto simboleggia l’essenza del posto, penne pronte a vibrare di colori sgargianti che, però, hanno conservato l’energia cinetica usata per deporre le uova, un po’ più grosse del normale e tali da aver generato arrossamenti e pruriti difficili da sopportare, soprattutto per chi la pianta grassa posata sui fogli e sulla scrivania s’è visto imporre.
Eppure, nonostante tutto, del telone era stato promesso il rifacimento in meno di un mese, forse – se si riparasse – anche l’elefante ora chiuso (e inutilmente ignorato) in una stanza, troverebbe il posto giusto dove stare.
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