Le opere di Fernando Pessoa, assieme ad alcune riflessioni che su di lui e la sua opera sono state compiute, lasciano senza respiro, ma allo stesso tempo si potrebbe dire altro, l’esatto contrario, seppur restando convinti che anche una volta espressa la contrarietà, si rischierebbe di perdersi in una nuova contraddizione. Lasciano una sensazione di colmo e vuoto, perché riempiono il lettore fino a sentire la vita salire sulle palpebre per poi svuotarla nel lascito del pianto. Leggere di Fernando Pessoa diventa un atto dalle sensazioni mistiche, con cui si avverte l’avvicinamento al creato, con timore, confidenza, umiltà e infine tracotanza. Capita di sentirsi perfetti e capaci di tutto, di muoversi nella vita ballando come uomini di mais usciti da racconti messicani o semplicemente come androgini nel meriggio a noi più comune. Ma è una perfezione, uno stato di divinità estremamente mortale, poiché ci si sente miscredenti, ma non per essersi avvicinati alla divinità o al senso umile e sublime della vita, ma, usando le parole del poeta lusitano, “miscredente/di quel mio dio che sono da esaltato./ Vedo dentro di me un cielo vasto/ ed è soltanto un verticale cielo vuoto”[1]. Ma a cosa può essere dovuto questo sentire contrastante? Sicuramente dal sentire dell’autore, ortonimo o eteronimo e poi, forse, dal senso di solitudine o inquietudine, da non intendere come sinonimi o contrari, ma non si riconosce più quando appartengono al poeta o quando realmente il lettore avverta questo sentimento. Si sente così di divenire qualcosa, diverso da sé stessi, o per lo meno si riscopre un altro sé, un altro io, rimasto nascosto dietro ogni lettore ma con lo stesso apparato organico, a volte difficile da accettare se non fosse per una vocina sussurrante che è il tentativo per restare umani.
Ma se fino ad ora si è parlato del sentire, ora è il momento di chiarire come sia, che forma abbia. È un sentire che sembra nascere in relazione alla geografia dei luoghi che segnano l’esistenza del poeta portoghese; è un sentire di mediazione, capace di trovare il medio, il giusto, un equilibrio che ai più sembra un continuo ritrattare le proprie posizioni, una incoerente pazzia, ma in realtà misura il sentire del cuore con il sentire delle ragioni. È un sentire estremamente naturale che ritrova l’anima dell’uomo non nella città, che davanti agli occhiali di Pessoa muta con estrema rapidità, bensì nelle acque che da fiume (al Tejo si potrebbe pensare) mutano in Oceano (Atlantico, se il fiume è il Tejo) e la foce, il confine, il punto che sembra decidere l’esistenza, è una finzione di mare salato e dolce, adagiato e costretto tra muri, banchine e spiagge. L’acqua potrebbe essere il bacino di raccolta delle anime e della loro finzione, dove cadono e risorgono le maschere, portando lontani da sé stessi, seppur si resta in sé, proprio perché la finzione è l’impalcatura vitale[2].
Fernando Pessoa, costretto dal suo corpo in grisaglia, dalla sua pelle che dimora sotto l’usuale cappello, scrive il primo gennaio 1920, quasi a segnare con l’inizio del nuovo anno il suo essere ortonimo all’ombra di quel mondo sepolto in un baule che molti anni dopo verrà, fortunatamente, profanato, “Lontano da me in me esisto/ fuori da chi io sono/ l’ombra e il movimento in cui consisto”[3]. Il fiume dopo esser nato lontano dalla sua foce, scorre, muta nel suo corso, si compone di rivoli e ogni passaggio vive un proprio istante, una vita imposta, per fingersi, alla fine, mare e chiedersi di chi siano quei ricordi che lo abitano, fino a questionare della loro esistenza, perdendo il ricordo di quell’istante e ritrovare le sensazioni poste in dubbio verso l’oblio oceanico di quel nuovo istante che fa avvertire, sentire come allora, anche se non si è convinti dell’esistenza di quell’allora. “Vecchia musica da niente!/ Non so per quale consonanza/ Si è riempito di lacrime/ il mio sguardo rapito./ Ti ho già sentita, ricordo/ forse ti ascoltai/ in quella mia infanzia che in te riaffiora./ Con quale ansia furibonda/rivorrei quell’allora!/ Ero felice? Non so: lo sono stato allora ora”[4].
PS. Tutto ciò non è altro che una infinitesima parte di cosa sia il sentire: è un piccolo testimone, già perduto in mare e rinnegato, ma con sé stesso.
[1] F. Pessoa, 2013, Poesie di Fernando Pessoa, volume curato da Antonio Tabucchi e Maria Josè de Lancastre, p. 53. Poesia datata 3.6.1913.
[2] Si fa riferimento alla poesia L’impalcatura, p. 139, op.cit.
[3] Op.cit., p. 127.
[4] Op. cit., p. 147
[5] Tratto da L’impalcatura, op. cit., p. 139.
[6] Tratto da Epigramma, op. cit., p. 129.
[7] Corsivo mio, nel testo fremi. Op. cit., p. 121.
di Fabrizio Di Buono