che cosa è rimasto della dieta mediterranea

Mangiare per vivere, vivere per mangiare, mangiare per morire e far morire

Titolo originale: “Che cosa è rimasto della dieta mediterranea“; apparso sul periodico Borghi d’Europa (diretta da Bruno Sganga)

A 10 anni, compiuti lo scorso 16 novembre, dal riconoscimento da parte dell’Unesco della dieta mediterranea come bene immateriale dell’umanità, le persone, compresi i bambini, in sovrappeso e con patologie gravi legate all’alimentazione sono in netto aumento. Persino nel Belpaese, dove, oramai quasi settant’anni fa, il nutrizionista statunitense Ancel Keys scoprì la migliore dieta del mondo.

A Nicotera per la precisione, un piccolo centro calabrese dove Keys, analizzando lo stile alimentare della popolazione, portò avanti una serie di studi comparati che lo condussero a eleggere come migliori le abitudini alimentari che da secoli, se non da millenni, appartengono ad alcune delle popolazioni del bacino mediterraneo. Di qui il nome di “dieta mediterranea”.

Keys e la sua equipe considerarono il regime alimentare di sette paesi (Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Olanda, Stati Uniti e Jugoslavia), i risultati parlavano chiaro: la mortalità legata a patologie di derivazione alimentare era fortemente inferiore nei Paesi associati alla dieta mediterranea.

Volendo ridurre ai minimi termini le evidenze dello studio: quanto minore è il consumo di grassi e proteine animali e di zucchero tanto più salutare è la dieta.

Ma come si è  passati dal primato di popolazione più longeva e meno coinvolta da cardiopatie e, in generale, patologie legate ad una alimentazione sbagliata ad una situazione tanto disastrosa? Come si è passati dal noto testamento di Ippocrate alla demistificazione dell’atto del nutrirsi?

Quello che rappresenta il cibo in origine, la forma più forte di amore e del prendersi cura di se stessi, oggi si può tradurre con un solo termine: demandare. Si demanda la cura dei campi e delle piante a persone guidate solo dai numeri dei limiti imposti delle percentuali di pesticidi, ormoni e fertilizzanti; si demanda l’uccisione di animali a persone che o hanno problemi cognitivi o, se non ce li hanno e sono costretti a fare il lavoro più brutto del mondo, li sviluppano poi, come emerso da diversi studi scientifici tra cui quello dello psichiatra Chi-Chi Obuaya dell’Ospedale di salute mentale di Nightingale a Londra, il quale parla di PTSD, disturbo da stress post traumatico. D’altronde molti di questi ex lavoratori hanno deciso di voltarsi alla causa animalista e di condividere il loro vissuto. Di seguito alcune testimonianze: “Certi maiali in mattatoio mi vengono vicino e mi strofinano il muso contro come fossero dei cuccioli. Due minuti dopo li devo ammazzare a suon di sprangate. Questi maiali finiscono nella cisterna bollente e quando toccano l’acqua cominciano ad urlare e a scalciare. A volte si agitano talmente tanto da schizzare l’acqua fuori dalla cisterna, prima o poi muoiono affogati. C’è un braccio rotante che li spinge in basso, non hanno modo di uscire fuori. Non sono sicuro se muoiano prima affogati o prima ustionati, ma ci mettono qualche minuto per smettere di dimenarsi.” Ed Van Winkle; “L’enorme quantità di esseri viventi che uccidi e di sangue che vedi, dopo un po’ arriva alla tua psiche, soprattutto se non puoi semplicemente spegnere tutte le emozioni e trasformarti in uno zombie robotico della morte. Ti senti parte di una grande macchina della distruzione […] sei solo, sai che sei diverso dalla maggior parte delle persone. Loro non hanno orribili visioni di morte nelle loro teste, non hanno visto quello che hai visto tu e neppure lo vogliono sapere, non ne vogliono sentire parlare. Se lo facessero come farebbero a mangiare quel pezzo di pollo, dopo?” Virgil Butler. 

E tutto questo demandare, oggi, si è amplificato alla misura dell’insostenibile e violenta industrializzazione planetaria. Chi pensa di sposare la dieta mediterranea approvvigionandosi nei supermercati o mente a se stesso oppure non ha idea di cosa sia lo stile mediterraneo. Lo studio di Keys, come detto, ebbe luogo negli anni 50 e prese in considerazione le consuetudini alimentari di alcune popolazione dell’Italia del sud e della Grecia. A quei tempi, in quei luoghi, i prodotti industriali non rientravano nella quotidianità, anzi, non rientravano proprio, se non per alcune rare eccezioni, sicuramente non presenti all’interno del target preso in esame dallo studioso d’oltreoceano. Perché la dieta mediterranea è uno stile di vita, di olive raccolte in autunno inoltrato e campi dorati dai cereali estivi e frutti succosi e dolcissimi che pulsano e si colorano al sole e legumi assaggiati in ogni fase di conservazione; direttamente dalla pianta, crudi e freschissimi o cotti al fuoco del camino, in una pignatta modellata solo per loro. Di attese e di ogni stagione che torna con i suoi doni migliori. Uno stile di vita incompatibile con la produzione industriale per cui le stagioni sono solo le cadenze del bilancio annuale, per cui i colori sono frutto di selezioni spinte anche nei laboratori anziché la benedizione del sole, per cui gli animali sono pezzi di carne che mangiano e defecano piuttosto che anime belle che soffrono e si perdono nella paura.

Cosa è rimasto allora della dieta mediterranea?

L’amnesia della bellezza della vita riflessa in un’alimentazione divina, di un’esistenza autentica sostituita da una delega che trattiene la parte migliore e restituisce veleno che va a rimpinzare guance grassocce che si ammalano e che diventano anche sempre più tristi perché, parallelamente a patologie come cancro, diabete, coronopatie, crescono anche quelle della sfera psichica.

Le abitudini alimentari riflettono la qualità della vita e se è vero che siamo riusciti ad accettare questo “cambiamento alimentare” è anche vero che abbiamo smesso di celebrare l’esistenza in ogni attimo e in ogni azione, facendo diventare una consuetudine condivisa la dissacrazione quotidiana della vita.

Secondo le più aggiornate statistiche, nel mondo vengono uccisi a scopo alimentare 170 miliardi di animali ogni anno, solo in Italia 8 milioni al giorno, 300.000 animali al minuto.

Secondo Yuval Noah Harari, storico, saggista e professore universitario israeliano il modo in cui l’agricoltura moderna tratta gli animali è uno dei peggiori crimini della storia. E non tanto per le uccisioni in se quanto per le torture che si celano dietro i metodi dell’allevamento intensivo.

L’evoluzione industriale cosi come è stata disegnata è un fallimento totale; non ha eliminato la fame nel mondo e ne mai lo farà, ha generato sofferenza, malattie e infelicità. Avvelena la terra e le acque, inquina l’aria, sviluppa pericolose, quelle si, resistenze nel mondo batterico, estingue intere specie di animali e di piante.

E allora cosa resterà della dieta mediterranea? Niente se non torneremo a raccogliere e a preparare il nostro cibo, se non comprenderemo il valore e la storia di ogni grammo di pietanza che decideremo di mangiare. Niente se non riusciremo a distinguere cosa abbandonare e cosa accogliere delle tradizioni e delle innovazioni.

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