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Angeli con la faccia sporca. Storie straniere non estranee di Roberto Pititto

Ad Adulis il “campo” è una circonferenza appena accennata, quasi un’idea , delimitata da qualche tenda, da malandati cassoni di compensato,  una vecchia cisterna arrugginita e cabine di doccia, senz’acqua, di un blu assurdamente intenso. Intorno, un antico argine di fango e dune ed avvallamenti e acacie stentate. Ad Adulis il campo è niente, immerso nel nulla apparente che lo circonda e da esso , solo se guardi a sud, scorgi lontano ed irreale il minareto di Zula, oltre le dune e i rari cespugli. La sveglia è dettata dalla luce che precede di poco il sole, che sale rapido, inondando d’oro ogni cosa. Ed è lo stesso ritmo del sole che ci ordina di fermarci nel breve tramonto che precede la notte, incredibilmente ricca di stelle. Un ritmo immutato nel tempo, da un’età assai più antica dell’uomo, lo stesso che segnava la vita, il lavoro, le passioni, il dolore e la gioia, nei secoli in cui Adulis era viva e ridondante di colori e rumori, di donne e di uomini e bambini, tra strade  polverose, vicoli e chiese, mercati e mercanti, stranieri d’Oriente o soldati di Axum, amori e tradimenti. Ma oggi in quei sentieri appena tracciati, di polvere e sabbia, che contornano basse dune, poche decine di centimetri,  sormontate da uno spinoso cespuglio, di un verde assurdo e polveroso, e che disegnano un complicato labirinto, in cui perdersi è prassi, sono altre le voci che si possono ascoltare. Ed è di queste che voglio raccontare.

Al campo di Adulis sono arrivato quasi al tramonto, dopo un viaggio più lungo del previsto, punteggiato da tappe ed accompagnato, scendendo da Asmara, dal grande altipiano orientale, da una pioggerella sottile ed inattesa e da banchi di nebbia, umida e fredda, certo un clima inconsueto a quelle latitudini. Con me, nel fuoristrada, i miei compagni di viaggio ed avventura, Omar, magro come un chiodo, trentino e quindi a suo agio tra i ripidi pendii che la macchina percorre velocemente, troppo pensiamo tutti. Ciuffo ribelle , tatuaggi diffusi, dinoccolato e, a meno di trent’anni, innamorato di un lavoro, tra antichi manufatti ed ossa e ceneri di uomini scomparsi da migliaia di anni, Matteo e Bojana, archeologi dell’Istituto Pontificio, da lì a poco ribattezzati  i “pontifici of Rome” per tutti. Matteo è un altro montanaro, come, anzi più di Omar, un valtellinese entusiasta e gentile, con una  folta barba che non riesce a farlo sembrare più vecchio. I suoi trent’anni brillano nei suoi occhi buoni ed attenti; al suo fianco Bojana,  croata, bruna ed elegante, una caratteristica che la accompagna, lo scoprirò presto , in ogni momento del giorno. L’ultima tappa della strada è il villaggio di Foro. Polvere, asini, capre, negozietti di frutta, cammelli, un emporio dove puoi comprare riso, chiodi, sigarette, lenticchie e mille altre povere cose. Ed ancora un ritrovo ad un bivio, uno slargo dove fermarsi e bere un caffè, nel fumo prodotto da un antico forno dove si prepara l’ingera e dove, almeno credo, finisce ogni tanto una capra.  Da Foro la strada è una pista sterrata che serpeggia tra le acacie, e tra esse, se sei fortunato, puoi scorgere, fugace visione, uno struzzo assai più a suo agio rispetto al nostro fuoristrada. Poi dopo qualche chilometro il campo.

Ci accolgono con affetto sincero, Serena, il Direttore degli scavi, una bella milanese a suo agio nella polvere di quel posto sperduto, come lo sarebbe tra i salotti buoni della sua città : classe innata insomma. Con lei, Paolo, archeologo esperto , zazzera e barba da rock star e, anche questo scoprirò presto, esperto conoscitore, innamorato, di quella musica ai cui interpreti tanto assomiglia e Chiara riccioli biondi, occhi che brillano, sguardo buono e rassicurante, dolce e bella con i suoi frammenti di ceramica, puzzle impossibile, lungo chilometri e secoli. Il giorno dopo ci raggiungerà un altro Paolo, assai più giovane, un architetto incaricato della topografia, barba nerissima ed entusiasmo da vendere, buono come il pane e sensibile come pochi. Nonostante i suoi venticinque scrupoloso e professionale, come non ti aspetti.  Saranno loro i miei compagni di viaggio, lungo una settimana priva  di comodità solo apparentemente indispensabili, ricca di docce fatte con un secchio, di buio assoluto come non siamo più abituati a vedere, di acacie stentate utilizzate come momentanei sipari per funzioni che potete immaginare, di cibo scarso e non certo particolarmente appetitoso. Una settimana di polvere e caldo, di capre sgozzate e di iene e volpi di notti, di camminate all’alba e al tramonto tra dune di sabbia e buche, ossa sbiancate e spine. Una settimana tra voci all’imbrunire, tra risate ad una tavola assai parca, a parlare di musica o, purtroppo per me inevitabile, di malanni, di antiche chiese e frammenti di esse, di un mondo scomparso,  che tornava  vivo, di storie delle vite che si ritrovavano lì, in un lembo lontano d’Africa E’ stata una famiglia di cui mi sono sentito da subito parte. Una settimana scomoda e meravigliosa, magica, forse irripetibile per me, forse.  Sei giorni con Serena e la sua naturale autorevolezza, la sua competenza e la sua umanità, Paolo sempre presente, scrupoloso organizzatore, attento e vigile, competente  e rassicurante, Chiara che spendeva gli ultimi minuti di luce, nel breve crepuscolo, per lavare i suoi frammenti di ceramica, con amore materno ed il sorriso sul suo bel volto, Matteo, con gli occhi buoni, la maglietta che ogni giorno diventava più scura e la barba che alla sera assumeva lo stesso colore delle dune, Bojana, sua compagna nella vita e nella stessa passione, sempre impeccabile ed ordinata, bella dall’alba all’imbrunire, l’altro Paolo, intelligente, ironico appassionato e competente, ed Omar, il trentino con il quale ho lavorato a più stretto contatto, una religiosa passione per  ossa polverose che con infinita pazienta  sottraeva al fango secco di Adulis, strappando loro i segreti di una vita che apparteneva ad un mondo ed un tempo passati, ma non più perduti. Ma ancora più vivo è il ricordo di giorni pieni di vita e di passione, di cultura e risate, di salame e di vino furtivamente consumati nella scarsa luce, dentro un container malandato, di voci e silenzio. Il ricordo di voi amici sinceri, tra voi ero a casa e pensando a voi mi sentirò sempre a casa. Ripenso spesso ad ognuno e ai momenti vissuti, ma l’immagine più viva è quella di voi che, nel breve tramonto, tornate al campo, stanchi ed impolverati, mentre Adulis tornava a vivere grazie ai suoi angeli. Angeli con la faccia sporca.

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