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Sergio Leone: 30anni fa moriva il maestro del western italiano (diG.Cilento)

di Gianmarco Cilento

“Io non amo essere considerato padre. Nemmeno dai miei figli, che mi chiamano Sergio” afferma Leone in un’intervista TV del 1987. La cinefilia italiana ed europea lo battezza meritamente padre del Western italiano. Non ama quest’affermazione, e riconosce che prima del film capostipite da lui diretto nel 1964 “Per un pugno di dollari” sono stati prodotti ben trenta western in Italia. Il primo, “La vampira indiana” (1913), è stato girato proprio da suo padre, Roberto Roberti. Sergio Leone è infatti figlio d’arte. Roberti, al secolo Vincenzo Leone, è stato infatti un’importante regista del primo cinema muto italiano tra gli anni dieci e venti, autore di film interpretati da colonne del divismo quali Emilio Ghione e Francesca Bertini. La madre, Bice Valerian (pseudonimo di Edvige Valcarenghi) è attrice, presente in molti film del marito.

Il piccolo Sergio, nato a Roma il 3 gennaio 1929, respira quindi cinema sin dai banchi di scuola. Dopo una fugace comparsata in Ladri di biciclette(1948) di Vittorio De Sica, nel ruolo di un prete tedesco, inizia a lavorare come aiuto regista a Cinecittà. “Quo vadis” di Mervyn LeRoy (1951) è la sua prima assistenza come direttore della seconda unità di una certa rilevanza. Seguono collaborazioni con Mario Soldati, Mario Bonnard, ma soprattutto con registi statunitensi in trasferta in Italia nel florido periodo della Hollywood sul Tevere. Suoi quindi gli aiuti alla regia, spesso non accreditati, per “Elena di Troia” (1956) di Robert Wise, “La storia di una monaca” (1958) di Fred Zinnenmann, e al kolossal mitologico “Ben-Hur” (1959) di William Wyler, nella sequenza della corsa delle quadrighe. Ma nello stesso anno la prima regia ad un film, anche questa non accreditata per il peplum “Gli ultimi giorni di Pompei” di Bonnard, che ammalatosi, gli lascia l’incarico di ultimare la pellicola. L’importanza del genere mitologico di taglio storico è quindi rilevante per le sue future ambizioni. Dopo queste importanti collaborazioni vede in tal genere il suo vero sbocco stilistico. Gira quindi nel 1961 il suo esordio ufficiale, Il colosso di Rodi”. Sin da questo lungometraggio evidenti i segni di uno stile meticoloso nella cura del Cinemascope, dell’uso dei grandi paesaggi spagnoli come set ambientale e del Technicolor, rivolto all’esaltazione dello spettacolo diegetico.

La vera svolta, quella del film capostipite della sua fama, appunto Per un pugno di dollari”, arriva quando accantonata l’intenzione di un altro peplum dal titolo “Le aquile di Roma” sul finire del 1963 amici come Stelvio Massi e Tonino Valerii gli consigliano la visione de “La sfida del samurai” (Yojimbo) (1961) di Akira Kurosawa, vagamente ispirato al romanzo “Il raccolto rosso” (1929) di Dashiel Hammett. L’idea sarebbe quella di farne un remake in chiave western, più vicina al gusto del pubblico italiano. Il regista romano si appresta a scriverne la sceneggiatura con Duccio Tessari e Fernando Di Leo, pretende come garanzia di successo la presenza del divo James Coburn, ma questi è troppo costoso. Si imbatte quindi in Clint Eastwood, un ancora sconosciuto attore di serie western per la televisione statunitense, “Rawhide”. “Quando lo vidi, la cosa che mi colpì di più fu l’apatia, perché non parlava, era lento, apatico, sonnacchioso. Si svegliava solo nel momento in cui doveva sparare. Allora pensai di costruirgli questo personaggio addosso” ovvero quello che poi sarebbe diventato “l’uomo senza nome”. Il film viene girato tra Spagna e Italia con il titolo di lavorazione “Il magnifico straniero”, e con la rielaborazione del film di Kurosawa in sottofondo si approfitta di un forte rovesciamento degli stilemi “classici” del western americano. Non più il mito della frontiera, del ritorno a casa, dello sceriffo come portavoce della giustizia, degli Apache da salvare dalla banda di bounty killer rivale o delle belle donne nel saloon. Al posto di tutti questi ingredienti: giustizia corrotta, violenza come principio di difesa, protagonista dalla dubbia moralità, personaggi di contorno spesso grotteschi, violenza e spietatezza nei confronti dei pochi personaggi femminili. Una sorta di vero e proprio sovvertimento beffardo di un genere appartenente all’immaginario collettivo, espediente per certi aspetti simile al “Satyricon” di Petronio dove venivano ribaltati e messi alla berlina gli ingredienti principali dell’epica e del romanzo ellenistico, in particolare quelli dell’”Odissea” di Omero. Per paura che un western di produzione italiana possa essere accolto con diffidenza dal pubblico della penisola, il regista decide di mascherare tutto il cast artistico e tecnico con pseudonimi anglosassoni. Leone diventa quindi “Bob Robertson” (omaggio al padre), il coprotagonista Gian Maria Volontè si fa chiamare “John Wells”, il compositore della colonna sonora Ennio Morricone (qui alla sua prima collaborazione con il regista) Leo Nichols, e così via. Solo gli attori di nazionalità non italiana mantengono i loro nomi originali.

Manifesto pubblicitario di una sala cinematografica che conferma il successo di ‘Per un pugno di dollari’

“Per un pugno di dollari” parte in sordina nel settembre 1964 (la prima proiezione pubblica avviene, come ricorda Valerii in una sala vicino alla stazione di Firenze, il Supercinema) e nei mesi successivi alla sua uscita si rivela un grande successo. Nel frattempo Kurosawa tenta una causa al film per plagio e si pattuisce la percentuale sull’incasso del film in Giappone, Corea e Formosa (dove viene intitolato con un titolo simile al film di partenza, “Koya no Yojimbo”). Il film successivo, Per qualche dollaro in più(1965) è ancor più ambizioso. Leone lavora maggiormente sul contenuto politico nella sceneggiatura, i protagonisti diventano due (Eastwood viene stavolta affiancato dall’ancora poco noto mandriano Lee Van Cleef) e una maggiore lunghezza della pellicola (130 minuti) concede al regista di lavorare meglio sull’aspetto stilistico che inizia a stargli a cuore: l’uso dei tempi morti, avvalorato dall’importanza crescente della colonna sonora di Ennio Morricone, caratterizzante a tutti gli effetti.

Con i due film in sala si consacra ufficialmente in Italia la stagione dello spaghetti-western. Vari registi, soprattutto amici di Leone, si cimentano nella direzione di western, riprendendone modalità di realizzazione come l’uso delle location, puntualmente arrivano le parodie come “Per un pugno nell’occhio” (1965) con Franco e Ciccio, o “Per qualche dollaro in meno” (1966). Nel frattempo il cineasta romano gira il capitolo conclusivo della “Trilogia del dollaro”, la quintessenza del periodo. Il buono, il brutto, il cattivorinnova ulteriormente il genere e lo stile di Leone. Sullo sfondo di un’ambientazione ancor più violenta rispetto ai film precedenti, quello della Guerra di Secessione Americana, prende vita un western di quasi tre ore di durata, con tre protagonisti dalla rivalità epica che non permette allo spettatore l’identificazione con alcuno di loro. “Lo scopo era “La grande guerra” nel West” arriva a sostenere Paolo Mereghetti, visto lo stesso team di sceneggiatori: Age & Scarpelli e Luciano Vincenzoni. Ma non solo solo questi i meriti del film: Morricone rinnova ulteriormente il concetto di colonna sonora stessa, ancor più articolata di quelle precedenti, quasi naturale completamento delle immagini del film sullo sfondo di una caccia al tesoro disinibita e selvaggia dove Eastwood è nuovamente affiancato da Van Cleef e stavolta anche da Eli Wallach, che qui sembra quasi divenire protagonista assoluto. Celebre il triellio finale nel cimitero di Sad Hill, con i primissimi piani e dettagli dei tre protagonisti, che in un crescendo di suspence culminano nell’uso anticipatore del montaggio ipertensivo di carattere hollywoodiano. 

Manifesto italiano de ‘Il buono, il brutto, il cattivo’

““Il buono, il brutto, il cattivo” è il mio film preferito” sostiene Quentin Tarantino. L’amore per il regista italiano da parte sua è cosa nota, tanto che ad oggi risultano incalcolabili le citazioni e gli omaggi a quei film in lungometraggi quali “Kill Bill” (2002) o “Django Unchained” (2013). Oltre alla puntale parodia d’epoca, sempre interpretata da Franchi & Ingrassia, “Il bello, il brutto, il cretino” (1967), vari film hanno riutilizzato stilemi e caratteristiche del western leoniano, come “Vado, l’ammazzo e torno” di Enzo G. Castellari, o il più recente remake-omaggio di produzione coreana “Il buono, il matto, il cattivo” (2008) di Kim Ji-woon. Con il successivo C’era una volta il West”, girato nel 1968, Leone tende a un parziale ribaltamento dei tratti dei primi tre film, donando allo spettatore un’immagine più decadente, barocca e a tratti malinconica del mondo decantato. Non solo per la prima volta fa a meno del personaggio dell’Uomo senza nome, ma per gli esterni più significativi utilizza come location la leggendaria Monument Valley, teatro di molti dei più noti western hollywoodiani, come stavolta ben più noti sono i volti dei protagonisti, Henry Fonda, Charles Bronson e Claudia Cardinale, mentre gli sceneggiatori Bernardo Bertolucci e Dario Argento sono destinati a diventare maggiormente famosi in seguito come registi. “Sotto il segno del titanismo si tende al teatro d’opera e alla sua liturgia. Dall’epica del treno, della prima ferrovia transcontinentale si passa alla trenodia, al canto funebre sulla morte del West e dello spirito della Frontiera. Come in Sam Peckinpah” afferma Morando Morandini.

Claudia Cardinale durante un ciak di ‘C’era una volta il West’

Il pubblico sembra quindi aver visto con “C’era una volta il West” un elogio cinefilo e romantico alla più classica immagine del western americano. Tale è ad ogni modo l’influenza ormai anche negli Stati Uniti dei suoi film, che oltre ai notevoli incassi oltreoceano anche Eastwood, ritornato in patria, decide di interpretare nonché dirigere ulteriori western, come “Impiccalo più in alto” (1968) o “Gli avvoltoi hanno fame” (1969). Dopo una breve pausa, Leone ritorna alla macchina da presa con Giù la testa(1971), il suo film più politico, il suo western più complesso e anche l’ultimo. Reclutato finalmente il già desiderato James Coburn, affiancato da Rod Steiger e Romolo Valli, è un’epopea marxista, introdotta da una citazione di Mao Zedong, ambientata nella rivoluzione messicana del 1913 di Emiliano Zapata. Spingendosi ancor più avanti nel tempo rispetto i limiti massimi cronologici dell’immaginario del Far West (i primi del Novecento), decanta alcuni sentimenti politici del regista romano precedentemente repressi, almeno nei suoi film.

Nonostante le sostanziali differenze con i precedenti lungometraggi, “Giù la testa” si pone come un’opera molto attenta alla forma spettacolare, contenitrice di ulteriori generi come avventura o film di guerra. In alcuni paesi viene intitolato “C’era una volta la rivoluzione” e questo avrebbe dovuto essere il titolo originario. Il film viene collocato come il secondo della cosiddetta “Trilogia del tempo”. Molto probabilmente viste però le sue notevoli significazioni di natura politica è anche uno dei suoi film meno acclamati dal pubblico straniero.

Manifesto francese di ‘Giù la testa’, i western di Leone sono stati grandi successi commerciali nelle sale di quasi tutto il mondo

Il successivo progetto Leone lo ha già in pugno sin dal rilascio di quest’ultimo: un gangster-movie ambientato a New York nel 1900. Le difficoltà sono notevoli e la stesura del soggetto gli porta via parecchi anni. Nel frattempo ha ancora un’occasione per tornare dietro la macchina da presa non ufficialmente, in una sorta di simbolico ritorno alle origini, per Il mio nome è nessuno(1974) di Tonino Valerii con Terence Hill, del quale è anche produttore. Leone dirige tre sequenze e per i seguenti motivi viene considerato come un suo lavoro a tutti gli effetti. Nel frattempo ha anche modo di assistere al decadimento del genere, i cui ultimi bagliori sono caratterizzati dal filone dei “Trinità” interpretato da Bud Spencer e Terence Hill e da lavori quali “KeomManifesto francese di ‘Giù la testa’, i western di Leone sono stati grandi successi commerciali nelle sale di quasi tutto il mondoa” (1976) di Enzo G. Castellari, o “Sella d’argento” (1978) di Lucio Fulci. Continuando ad occuparsi di produzione, si impiega nel lancio cinematografico del giovane Carlo Verdone per il quale produce i suoi due primi film, “Un sacco bello” e “Bianco, rosso e Verdone” del 1980. Verdone considera da sempre Leone come il suo padrino artistico, ricordando “La notte prima delle riprese del mio primo film io non riuscivo a prendere sonno. Come si può dormire sapendo che il giorno dopo tu affronterai il primo ciak della tua vita? Ad un certo punto si sente suonare il citofono, sotto c’era Sergio Leone. Andai giù e lui mi mostro tutta la sua sensibilità e grandezza dicendomi: ‘Vieni, facciamo un giro da Ponte Sisto fino all’Isola Tiberina, e ti distrai un po’ perché la notte prima non si dorme mai. Manco io dormo prima dei film miei’ Poi mi accompagnò al portone e mi disse: ‘Domani mattina alle sei e mezzo ti vengo a prende’ io con la Mercedes’. Devo tutto a lui!”

Nel frattempo esce una ristampa del romanzo “Mano armata” (The hoods) di Harry Grey, pseudonimo del vecchio boss del proibizionismo David Aaronson. Leone leggendo trova finalmente l’ispirazione giusta per il vecchio progetto gangster-movie. Tra il 1982 e il 1983 si svolgono quindi le riprese di quello che è destinato ad essere il suo ultimo lungometraggio, C’era una volta in America(1984)prodotto da Arnon Milchan, suo unico lungometraggio non girato in Cinemascope, interpretato da Robert De Niro, James Wood, Joe Pesci e Elizabeth McGovern. Inizialmente pensato come film di cinque ore diviso in due atti, viene ulteriormente accorciato dal regista a 227 minuti, per timore che un film in due episodi per la distribuzione cinematografica possa non avere successo. Abbastanza note al giorno d’oggi le disavventure legate alla sua prima uscita negli USA: il produttore decide di accorciarlo a 140 minuti negli States, stravolgendone il montaggio. Leone, profondamente amareggiato per questa scelta intrapresa da Milchan decide di non visionare mai questa versione, oggi tra l’altro andata perduta. Il film riscuote sin da subito tuttavia una buona accoglienza da parte della critica e del pubblico in Europa. Negli anni acquisisce fama sempre maggiore, fino a diventare un cult e uno dei film long-seller degli anni Ottanta. Di grande fortuna come nei precedenti western la colonna sonora di Morricone, nonché l’inconsueta e tratti ambigua struttura del montaggio, in parte ricalcata dalla sperimentazione narrativa di Jorge Luis Borges. L’immaginario del proibizionismo e della violenza della società americana si impostano come sottofondo crudo e pieno di fascinazione visiva in un omaggio al cinema classico americano ricco e variegato. Sin dai principi del racconto di Noodles e Max dei primi anni Venti, Leone ritaglia un disegno di ragazzi americani inclini ai più immorali e cinici sentimenti visti dal “basso”, in una sorta di simbiosi suggerita più che esplicita con la poetica felliniana. I salti nel tempo, ritorno al momento di partenza della storia, fungono da momento di riflessione per lo spettatore, ma anche da possibilità per permettere una presa di posizione. La forte eterogeneità nella cifra filosofica del racconto, che alterna momenti di grande fascinazione sentimentale e poetica a sequenze di violenza sessuale, o a momenti di umorismo acre e triviale a potenziali scene di aggressione, ha tuttavia diviso le opinioni della critica, non riconoscendogli come ulteriore accusa per altro un linguaggio letterario originale e non privo di debiti (uno su tutti la recherchè di Proust).

Robert De Niro in ‘C’era una vota in America’

L’ultimo film di Leone viene comunque riconosciuto come il completamento del gangster movie, uno dei suoi risultati più completi. Così come è destinato ad essere il testamento per cause di forza maggiore del regista romano, che scompare improvvisamente il 30 aprile 1989, poco dopo aver gettato le basi di un kolossal sulla battaglia di Leningrado, sul quale progetto vent’anni dopo sarebbero arrivati i tentativi di recupero di Giuseppe Tornatore, anche questi risolti in un nulla di fatto.

Leone ha sempre prodotto una forma di spettacolo debitrice dell’immaginario americano, e insieme profondamente dissacratrice della stessa. Come ha d’altronde dichiarato molto sinceramente: “Non sono tanti gli Stati Uniti che mi affascinano, anche perché più li conosco, più mi spaventano, quanto la capacità fiabesca del cinema americano, non del solo Western, ma di tutti i generi perché i generi sanno regalare l’illusione, l’invenzione, la fantasia e il sogno”. La sua macchina produttiva prende atto del gusto del pubblico, seppure con scelte testuali meno radicali (o pretestuose) del periodo del Superspettacolo d’autore dei primi anni Sessanta. Leone prende anche, seppur trasversalmente, le distanze dal baricentro del Cinema Italiano, in gran parte rappresentato dal Neorealismo vissuto negli anni dell’adolescenza, nonostante quella famosa comparsata in “Ladri di biciclette” di De Sica: “Capii subito che il Neorealismo non era per me, lo trovavo noioso, senza spettacolarità, troppo legato alla cronaca. Si può capire quindi con quale ragione cominciai a lavorare accanto ai registi americani che avevano invaso Roma per dirigere i loro film in costume romano, e infatti mi sembravano tutti degli dei”.

Molto particolare anche la delineazione del personaggio nel suo cinema: non c’è bisogno di un personaggio onniscente come punto di riferimento culturale, o del potere costituito dalla situazione politica che circonda la narrazione dell’opera, come avveniva ad esempio con John Ford, regista emblema del liberalismo e della gloria dell’uomo americano. Lo stesso Uomo senza nome interpretato da Eastwood vive una sorta di dimensione abbastanza sovversiva per le logiche comportamentali del cacciatore di taglie o del Cowboy. Privo di un’identità sociologica anche nelle minime azioni, rappresenta quasi una sorta di nulla sartriano in un’ambiente ostile di uomini sempre impossibilitati a decidere sul proprio destino, privi di sicurezze anche momento per momento. Il gioco delle parti è sostanzialmente stabile nei fiancheggiatori come nei suoi rivali (come il Ramon di “Per un pugno di dollari”). La presenza del destino, ricorrente nella tragedia classica e nelle forme d’epica più semplice è immediata, sembra univoca (come la morte violenta) ma allo stesso tempo abbastanza imprevedibile (come la lotta finale de “Il buono, il brutto, il cattivo”). Lo stile di Leone è acuto, riflessivo, anche se privo di dubbi filosofici. Eppure dilata la regia dell’establishing shot nella più estrema delle possibilità, pur conservando una forma di suspence molto dinamica. Come dinamica e molto corale è la condivisione degli eventi tra i vari personaggi, priva di qualsiasi retorica solipsistica. Forse anche per questo la Cinematheque Francaise lo ha voluto omaggiare nei primi mesi di quest’anno (ricorrenza del novantennale della nascita e del trentennale della scomparsa) come simbolo del regista di genere per eccellenza per rappresentare il nostro cinema…

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