Spesso si dice che la musica, e l’arte in generale, arrivi dove non le parole non hanno accesso…e probabilmente è vero.
Altrettanto spesso si dice che la musica costituisce una sorta di linguaggio universale, come se fosse un veicolo immateriale capace di trasportarti in altri spazi, tempi, dimensioni…e probabilmente è vero anche questo.
Nel caso della musica jazz-fusion, che attinge a piene mani da fonemi di matrice varia e composita, costituendone alfabeto reale e potenziale che sfocia in un immaginario infinito, se possibile certi aspetti vengono esaltati in maniera esponenziale.
Trattandosi di un terreno altamente minato, (in quanto gli artisti che si cimentano in cotanta miscellanea di stili – dal funk al jazz sperimentale e al r’n’b – e ne vengono ispirati possono essere involontariamente trasportati dalla propria passione strumentistica in tecnicismi esagerati), riuscire a concretizzare emozioni , tecnica, atmosfere, stati d’animo che si librano insieme in un vorticoso insieme, è operazione estremamente difficile.
Questo disco, questo lavoro, che richiama alla gloriosissima etichetta GRP (gli appassionati del genere sanno di cosa si parla, clicca), è un fiume in piena che si arricchisce costantemente di altri corsi d’acqua il cui flusso risulta tanto generoso e possente, quanto placido e denso di suggestioni spontaneistiche ma meticoloso e assolutamente non casuale.
È un lavoro, questo ”Unexpected” degli ANOMALISA, privo di qualsivoglia forma di egoismo, in quanto non c’è mai la sensazione di uno strumento che primeggi sugli altri, che costituisca traino essenziale rispetto ad altre partiture, ed il risultato-quando un gruppo di artisti riesce a lasciar fuoriuscire il proprio modo di essere: ossia la generosità nel quotidiano tramutandolo in musica; è che appunto non ci si trova di fronte ad un lavoro ordinario e privo di passione, o anche caratterizzato da una fredda sterile passione fine a se stessa, ma al contrario ci si trova di fronte ad un insieme di emozioni e suggestioni che noi, appunto, definiamo musica.
In ordine alfabetico citiamo Domenico Guaragna (batteria) Alessandro La Neve (sax) Giorgio Minervino (chitarra) Marco Pagliaro (basso) , 4 teste e 4 cuori che affermano la presenza di un’anima comune ben definita eppure non limitabile in schemi precostituiti: sezione ritmica soffice e pulita ma incisiva e sempre presente, chitarra e sax che disegnano suoni tipici e riconoscibili ma capaci anche di squarciare tele su finestre immaginarie con sonorità acquisite di volta in volta in maniera sognante e delicata.
Il primo pezzo, “Anomalia”, apre l’album anzi la strada all’album introducendo chi ascolta immediatamente in una scala mobile che permette di camminare ma che scandisce tempi e modi di movimento in maniera propria.
Breve introduzione degna del miglior James Hardway di memoria drum’n’bass prima di impossessarsi, repentinamente, di una scena disegnata nei tempi da artisti quali Yellow Jackets e similari, non propriamente roba di secondo piano.
Il secondo pezzo,”Meaning of sounds”, si lascia andare in punta di strumenti in languide pennellate d’autore jazzistiche sottolineate da un sax che avvolge e chiosa, accompagnandole, scale mobili che improvvisamente diventano a chiocciola verso l’alto e si lasciano scivolare dolcemente in immersioni a pelo d’acqua con un placido tuffo che non ne solleva particella alcuna.
Il terzo pezzo, sembra voler proseguire nella scia del precedente: “Miodesopsie” in realtà si sofferma in alto e quando scende vorticosamente resta sospeso in fraseggi intimisti in una scena tipicamente jazz, come se ci trovassimo di fronte ad una foto che fissa un momento di vita quotidiana… non sapremo mai se la persona fotografata stava infilando la camicia o la stava dismettendo. Può essere una lettura e contemporaneamente l’opposto della stessa: il jazz è così, può esaltare una certa malinconia o semplicemente attenuare – nella forma e non nella sostanza – una felicità piena, da assaporare a proprio piacimento o stato d’animo. In fondo, il giorno e la notte finiscono spesso per confondersi ben oltre l’oggettiva percezione della luce: se sia salutare optare per un sogno o per un altro, beh, questa è operazione estremamente soggettiva, devono aver pensato questo i 4 musicisti quando si sono ritrovati a voler prolungare l’album attraverso l’abbandono “Fondazza”.
Mentre, per chi scrive, la perla del quinto brano cioè “Chili, Cheddar and Chocolate”, offre un miscuglio di sapori forti e ben definiti e ben distanti tra di loro, eppure capaci tutti allo stesso modo di fornire emozioni intense ed alla pari.
Sembra quasi che l’intero album, per quanto intenso e ben dosato in tutte le proprie parti, ugualmente belle ed importanti, abbia preparato in realtà il terreno, l’atmosfera, la stanza ed il letto, per questa suite che offre una consapevolezza interpretativa di primissimo ordine: una suggestione sognante come uno sguardo verso la luna.
La sesta parentesi aperta cioè “Hauptbahnhof”, per stessa ammissione del gruppo, è posta all’ultimo gradino e quindi alla temporanea uscita dal sogno, stazione di partenza e di arrivo di un percorso sorprendente per gli stessi autori: la consapevolezza – oltre il proprio stupore – che in realtà nulla è mai casuale, arriverà nei prossimi anni, ne sono certo.
Ci tengo a sottolineare, e non è una cosa a margine, che l’anima che pervade questo quadro d’autore, è un’anima elegante, della stessa eleganza di un Uomo a me molto caro, Angelo Pagliaro, che non ha forse avuto la possibilità di veder concretizzato questo lavoro tra le mani, ma dal quale ha avuto una carezza tra i capelli, come un soffio di vento che ne ha mosso i contorni dolcemente.
Nulla è mai casuale, si.